Impianti alimentari tra estero e hi-tech

PARMA. Dal nostro inviato
La multinazionale e l’artigiano sono ancora vicini di fabbrica. La crisi ha ridotto i margini di entrambi e costretto a chiudere alcune decine di piccoli conterzisti della filiera, ma nonostante si navighi a vista con ordini a singhiozzo e occupazione stagnante, il distretto della food machinery di Parma resta un’eccellenza della meccanica made in Italy. La scommessa è sposare la riconosciuta qualità tailor made degli impianti emiliani con una nuova cultura di sostenibilità ambientale, facendo leva su tecnologie green ed elettronica. Nonostante gli umori cupi degli operatori, la resilienza del settore di riferimento – l’anticiclica industria alimentare – e la forte vocazione ai mercati esteri che assorbono oltre il 70% dei volumi, si specchiano anche quest’anno in un ottimo trend dell’export (+22,3% nei primi sei mesi, dopo il +15,2% del 2011, secondo il Monitor Intesa Sanpaolo) che tiene saldi sia i ricavi delle 176 aziende del cluster sia il lavoro di oltre 8mila addetti.
I numeri
La crisi offusca il sentiment del distretto ma non le performance oltreconfine. «Grazie alla domanda estera – conferma Giovanni Foresti del servizio Studi e ricerche di Banca Intesa Sanpaolo – l’impiantistica alimentare di Parma ha preservato nel corso dei decenni la sua filiera specializzata, sinonimo di flessibilità del distretto e macchine a misura del cliente». Una leadership indiscussa in Italia e contesa sui mercati globali a big nordeuropei e americani. Nata alla fine dell’Ottocento per rispondere alla domanda dell’agricoltura locale di conservare e trasformare il prodotto dei campi, pomodoro in primis (si ha notizia di un centinaio di fabbriche di conserve attive un secolo fa), l’impiantistica alimentare è andata poi diversificando in tutti i comparti del food fino ad allargare l’operatività, negli ultimi decenni, alle bevande. Il passaggio delle frontiere risale già alla fine degli anni Settanta, per seguire la domanda lì dove andava maturando, dal Mediterraneo alla California per poi passare alla Cina negli anni Novanta, quando la terra di Mao divenne il più temuto concorrente nella lavorazione del pomodoro e le mastodontiche linee di trasformazione, riempimento e packaging «made in Parma» venivano installate (e poi copiate) nelle grandi imprese di Stato. «Mentre oggi è la Russia il primo bacino di riferimento del cluster parmense, seguita da Usa, Spagna, Francia e Algeria, con ottime prospettive in tutta l’ex Urss», precisa Foresti, che monitora un nucleo super-specializzato del territorio che vale 400 milioni di export annuo. Contro i 1.400 milioni di esportazioni stimati invece dall’Unione parmense degli industriali, su un fatturato dell’impiantistica alimentare in provincia di circa 2,2 miliardi.
L’industria
A raccontare l’evoluzione della food machinery non è solo il ruolo crescente dell’elettronica – pesava pochi punti percentuali sul valore finito del manufatto trent’anni fa, oggi anche il 40% – e la diversa geografia dei mercati, ma anche l’arrivo di multinazionali che hanno fagocitato marchi storici del distretto e permesso, per contro, un forte progresso tecnologico della filiera. È il caso di Simonazzi, passata a Sasib-Cir poi agli svizzeri di Sig e infine, nel 2005, a Sidel, società francese del colosso Tetra-Laval; o l’altro specialista dell’imbottigliamento, la Procomac di Sala Baganza, acquisito cinque anni fa dalla quotata tedesca Gea. Due imperi globalizzati, con filiere produttive lunghissime, oltre il 90% della produzione esportata, ma con un cuore creativo nel Granducato «da preservare». Ne è convinto Riccardo Rosselli, managing director di Sidel Italia, branch di uno dei primi tre player mondiali nell’imbottigliamento di bevande, dai soft drink alla birra, che a Parma ha mantenuto un polmone di 950 addetti specializzato nel fine linea e un rapporto costante di make or buy con la filiera locale che garantisce flessibilità. «Il nostro mercato è sano, perché finché crescono popolazione mondiale e urbanizzazione i consumi di bevande salgono. Ma è un business legato a beni di investimento e ciò comporta una fortissima ciclicità», spiega Rosselli che si appresta a chiudere un 2012 «insoddisfacente» per fatturato, a causa di ordini arrivati tardi ma che si tradurranno in una crescita per l’anno a venire.
«Il 2012 sarà un anno di recessione – conferma Giacomo Magri, presidente di Acmi (impianti completi hi-tech per il beverage) e caposezione dell’impiantistica alimentare della Confindustria provinciale –, ma qualche raggio di luce si inizia a vedere. Il problema è che la qualità non viene più apprezzata e valorizzata appieno, superata sempre dall’attenzione al prezzo. Questo penalizza una filiera che, seppur indebolita, resta il baluardo del nostro know-how tecnico e della nostra competitività». In mani locali è rimasta la Cft Rossi Catelli (suo dal 2000 anche un altro brand simbolo del distretto, Manzini), nata con la lavorazione del pomodoro 50 anni fa e tutt’ora leader mondiale nella nicchia, anche se la stagionalità del business sommata alla saturazione del mercato sta imponendo una drastica riorganizzazione. Ha resistito ai corteggiamenti ed è ancora saldamente nelle mani della famiglia Zanichelli la Zacmi, leader negli impianti per riempimento e chiusura di cibo solido in lattine e vetro (come cetriolini e giardiniera Ponti). «Siamo rimasti in pochi di taglia media in Europa nel settore – spiega l’ad Giorgio Boselli, da 41 in azienda, pioniere in Cina negli anni Ottanta e oggi pronto a conquistare la Bielorussia – e l’incapacità di fare squadra del distretto ci ha reso facile preda di grandi gruppi. Ma su prototipi e macchine personalizzate ad alta tecnologia nessuno ci batte. In Zacmi investiamo il 10% in R&S, contro una media del 3% nel settore, lavoriamo per tutte le multinazionali alimentari del mondo, il 92% del fatturato (22 milioni quest’anno) è export. Non vedo a breve chance di ripresa, perché non si tratta più di crisi, bensì di un ridimensionamento strutturale cui, credo, ci dovremo abituare».
Il mercato del lavoro
In due anni l’impiantistica alimentare ha perso il 25% degli occupati, «esito di ristrutturazioni aziendali che neppure la ripresa dell’export riesce a rimpiazzare», nota Antonella Stasi, segretario della Fiom Cgil di Parma. Quattro anni di crisi ininterrotta per il settore metalmeccanico, con quasi 400 posti di lavoro cancellati solo da gennaio a fine ottobre scorso e con una vera débâcle del ramo motoristico, fanno sembrare la tenuta della food machinery un ottimo risultato. «Eppure – continua Stasi – non c’è motivo di stare sereni, perché al di là dei dati ufficiali sulla disoccupazione che continuano a premiare il territorio (Parma partiva l’anno scorso da un minimo nazionale del 3,7%, ndr) bisognerebbe vedere quanta è vera occupazione stabile e quanto lavoro interinale intermittente». Quando le aziende si riportano in casa le commesse, come hanno fatto quelle dell’impiantistica alimentare negli ultimi anni, si ha un duplice effetto negativo: da un lato le piccole imprese artigiane della filiera o chiudono (-10% quelle attive nell’ultimo anno) o fanno un massiccio ricorso alla cassa in deroga (+33% nei primi dieci mesi del 2012); dall’altro, le committenti che hanno re-internalizzato la produzione ricorrono a lavoro a chiamata anche per pochi giorni al mese, per non appesantire la struttura dei costi, senza prospettive per i lavoratori con alte professionalità rimasti disoccupati.
«Il problema è che si naviga a vista, i budget aziendali vengono disattesi e non c’è un minimo di programmabilità per intavolare trattative sindacali», conclude il segretario Cgil, mentre la cronaca provinciale racconta degli scioperi alla Sidel per l’allungamento dell’orario di lavoro a 48 ore, della fine del ricorso alla Cig alla Cft ma anche della chiusura della Packital Project con otto persone licenziate. Segnali discordanti di un distretto ormai abituato a fare i conti con gli alti e bassi della domanda, aggrappato ai primi segnali positivi che arrivano dagli ordini.
L’artigianato
«Prima qui, in 50 chilometri quadrati, c’era chi faceva l’impianto elettrico, il motore, il pezzo in metallo, la minuteria, il cassone e la spedizione del macchinario completo. Ora non più: la filiera si è allungata a dismisura, è rimasta un po’ di intelligence, ma una buona fetta delle lavorazioni è finita all’estero. L’artigiano si trova a fare i conti con vendite scese del 30% rispetto ai dati pre-crisi», racconta Domenico Capitelli, direttore della Cna provinciale. Nel Granducato restano le piccole aziende specializzate nel «made in Parma» alimentare, come la Gelmini di Langhirano, leader mondiale nelle linee automatiche per la lavorazione dei formaggi (Parmigiano reggiano su tutti) e di prosciutto e salumi. E restano le lavorazioni meccaniche ad alta complessità. «Le officine senza marchio né mercato finale sono sparite – aggiunge Capitelli – così come si è perso il valore aggiunto dell’interazione quotidiana tra piccole aziende familiari dell’alimentare dell’impiantistica, una contaminazione che ha reso grande il distretto e stimolato costante innovazione».
Roberto Bianchi, uno dei soci della Italplast di Fidenza, oggi in effetti non rifarebbe più la scelta del 1986 di mettersi in proprio a costruire piccoli macchinari di qualità per produrre pasta. «Non c’è più nessuno oggi nel distretto che parte da zero, come si faceva trent’anni fa – racconta – perché i margini sono a zero, tra aumento dei costi, banche che non finanziano né noi né i potenziali clienti e istituzioni assenti nei percorsi di internazionalizzazione. Esportiamo il 70% dei volumi, tra i 6 e gli 8 milioni ogni anno (fatturare una macchina da 800mila euro a dicembre o a gennaio dell’anno successivo sposta i pesi) e oggi i nostri principali clienti sono in Sudan, Kazakistan, Uzbekistan, Russia. Per una Pmi come Italplast è però molto faticoso investire oltreconfine. Scontiamo l’incapacità di fare sistema di questo territorio». «Dovevamo chiudere o vendere cinque anni fa – conclude Luigi Giuffredi, alla guida con tre soci della Sacma Inox Snc, che dal 1977 produce vasche e impianti per le lavorazioni del latte, dal piccolo caseificio di montagna a Parmalat – perché oggi ci sono solo problemi: non abbiamo chi ci succede in azienda, nessuno fa credito, le commesse scarseggiano, ma il lavoro è altamente specializzato e operai polivalenti non se ne trovano più o quelli formati all’interno se ne vanno appena possono».
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IL RATING DEL SOLE
Il punteggio
Attraverso una griglia di 12 variabili ciascun distretto è definito nei suoi punti di forza e di debolezza. Nel caso della food machinery di Parma spiccano in particolare produttività, internazionalizzazione e innovazione. Più in ombra la capacità di fare rete.
PUNTI DI FORZA
1
PRODUTTIVITÀ
La flessibilità e la capacità di declinare
il prodotto in base alle esigenze della clientela sono i plus del distretto parmense ai quali si deve la leadership in a ambito europeo. Sono il frutto di oltre un secolo di collaborazione sia con la filiera alimentare del territorio sia con la rete di subfornitura, che seppur indebolita, è tuttora competitiva
2
INTERNAZIONALIZZAZIONE
La globalizzazione si legge nella presenza
a Parma di multinazionali come Sidel e Gea e nella forte vocazione all’export (70% dei ricavi) dell’impiantistica alimentare. La debolezza della domanda europea impone però un ulteriore passo, per presidiare i mercati in forte crescita dell’ex Urss non solo a livello commerciale ma produttivo
3
INNOVAZIONE
È una moneta a due facce quello della R&S nella food machinery, dove prevale la cultura del prodotto e quindi di innovazioni incrementali (facilmente imitabili e inefficaci per tutelare a lungo la proprietà intellettuale), mentre latita l’innovazione radicale. Non a caso la concorrenza dei costruttori asiatici è sempre più pressante
PUNTI DI DEBOLEZZA
1
OCCUPAZIONE
È in calo il mercato del lavoro nel distretto (oltre 8mila addetti secondo le ultime stime) di riflesso a una crisi che ha indotto
i committenti a internalizzare fasi produttive e i piccoli a chiudere.
Si stanno perdendo maestranze altamente qualificate che il sistema formativo locale non è in grado di rimpiazzare
2
ATTRATTIVITÀ
In un distretto meccanico a medio-bassa tecnologia e soggetto a una forte pressione concorrenziale da parte di Paesi a minor costo di manopera, i deficit territoriali pesano più che altrove. È il caso di Parma, che oltre a scontare i gap del sistema-Paese paga la carenza infrastrutturale e lo stop a investimenti pubblici nell’ultimo ventennio
3
CAPACITÀ DI FARE RETE
L’individualismo dell’imprenditore parmense è un limite ammesso da tutti,
big e piccoli artigiani. In un distretto in cui su quasi 180 imprese neppure 30 superano i 50 dipendenti, l’isolazionismo dei singoli agevola l’opera di fagocitazione da parte
di imprese più grandi e in particolare
delle multinazionali straniere
Ilaria Vesentini.
TESTO TRATTO DA “IL SOLE 24 ORE” 15 NOVEMBRE 2012.